La Colfranculana e
il ceppo di Natale
A Colfrancui,
da anni, la sera prima del Natale, viene acceso il ceppo natalizio alla
presenza della popolazione che, attorno al fuoco, si incontra, si saluta
e si scambia gli auguri in un’allegra armonia.
Immodestamente, è merito della Colfranculana se il ceppo, o meglio il
ciocco di Natale ha acquisito un briciolo di notorietà. Questa
pubblicità non era fra gli intenti degli organizzatori. Si pensava invece
a un momento di aggregazione.
Ma andiamo
con ordine. Bisogna risalire a più di 30 anni fa, ai primi anni ’70.
Per
caratterizzare il Natale di Colfrancui, al nostro interno, qualcuno
propose di realizzare l’accensione del ciocco nella notte di Natale, per
così dire, in pubblico.
Alcuni, i
più giovani, ne sapevano poco e quindi, anche se in termini molto
informali,
ci fu ci fu una chiarificazione concettuale.
Quello che
emerse dalla voce degli anziani interpellati fu, all’incirca, questa
storia.
In alcune
famiglie della nostra zona ( non sappiamo se anche altrove) c’era l’uso,
sotto Natale, di caricare sul fuoco un ceppo particolarmente
consistente e resistente.
Questo
voluminoso ceppo non si consumava in quattro e quattr’otto ma durava per
più giorni, fino a giungere alla sera del Panevin . Allora, con quanto
restava del ceppo natalizio, si accendeva il grande fuoco che segnava la
fine del periodo natalizio.
Vi era
un’intenzionalità in tutto questo, nel senso che si risparmiava
consapevolmente quel ciocco, tenendolo ai margini del braciere, ciocco che
era comunque refrattario alla fiamma di suo. Si trattava infatti spesso di
quella parte del tronco che sprofonda nel terreno trasformandosi nel
viluppo radicale, e che nel dialetto locale viene ancor oggi definito
“zoc” oppure “zocca”. Spaccare ciocchi era uno dei lavori più duri e
sconcianti proprio per la durezza di quella parte della pianta.
Digressione:
per sottolineare che si tratta di un legno decisamente duro è opportuno
ricordare che un tipo restìo alla comprensione veniva appellato “zocca”
Presumibilmente questa operazione si
svolgeva con maggior facilità dove c’era un ampio focolare, adatto a una
grande cucina e a una famiglia numerosa. Ci fu fatto presente che questa
modalità forse era meno presente nelle abitazioni più modeste
o nei casoni, dove le durezze della vita
non permettevano di sottilizzare.
Peraltro accadeva che, talvolta, a fine
giornata, più famiglie si concentrassero nelle abitazioni più ampie e
accoglienti, tutti insieme per stare un po’ al caldo e, nel contempo
economizzare combustibile. ( Le stesse famiglie si sarebbero poi ritrovate
intorno al Panevin) .
L’intenzionalità di cui si diceva sopra
era senz’altro legata alla religiosità popolare;
in questo caso veniva dato con molta
naturalezza un significato rituale alla atavica conservazione del fuoco
e saldando con un legame caldo e luminoso il Natale e l’Epifania.
Le nostre fonti, peraltro poche e incerte,
dicevano che il ciocco dovrebbe ricordare il fuoco intorno a cui si
scaldavano i pastori nei dintorni di Betlemme, fuoco che poi guidò i magi
fino alla grotta..
Va dato conto, con tutte le cautele del
caso, anche di un altro uso del ciocco di cui ci era giunta voce. Pare
venisse posto all’aperto in caso di maltempo, per evitare, quasi come una
reliquia, danni ai raccolti. Si tratta di un uso analogo a quello dei
rami di olivo o delle candele benedette cui le donne facevano ricorso
quando cadeva la grandine. Crediamo non sia superfluo ricordare come,
per l’economia contadina, i danni provocati dalla grandine, dalle gelate
o da una malattia alle mucche, ai maiali o ai bachi da seta poteva
significare la rovina.
Anche i più scettici quindi comprenderanno
come, in un passato non troppo lontano,
fosse naturale e logico cercare protezione
da queste e da altre disgrazie anche in forme che noi oggi consideriamo
ingenue.
La Colfranculana scelse di realizzare il
ceppo di Natale con dimensioni rispettabili, quasi da falò, anche per
dargli quel fascino che, diremmo fatalmente ogni fiamma nella notte
sprigiona. Le prime volte si fece ricorso ai materiali consigliati dalla
tradizione: tronchi interi o alberi morti, almeno finchè fu possibile
reperirli fra le siepi della zona. Oggi questo è molto più difficile
causa disboscamento. Tra l’altro diversi tronchi non bruciarono per
intero la sera di Natale e il braciere rimase attivo, pur essendo
all’aperto, per giorni e giorni
Alcuni tronchi vennero addirittura messi da
parte e riutilizzati l’anno dopo.
La Colfranculana realizzò in paese anche
alcuni Panevin ma l’accensione non fu fatta con il ciocco. In questo
siamo stati poco rispettosi della tradizione.
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