VILLA GALVAGNA GIOL
Questa rubrichetta che ha l’intento di raccontare
questo o quell’altro aspetto di Colfrancui non poteva eludere il
maggior monumento locale: Villa Galvagna Giol.
Si tratta di un complesso di edifici e di un vasto
parco situati in un’ ansa del fiume Lia, all’origine del canale
Navisego. Il Navisego è ciò che oggi resta di quel corso d’acqua che
portava a Opitergium e che poi, diventato Piavon, “ramo del Piave”
proseguiva fino al mare. E’ facile pensare che i primi abitanti della
villa se ne servissero per andare in barca fino a Oderzo.
Oggi si riconoscono un palazzo centrale con cappella,
una imponente barchessa, una casa a presidiare l’ingresso e perfino
una jazzera ( scritto così sembra una via di mezzo tra una tv araba
e una musicista nera ma che nel parlato locale era la ghiacciaia)
Il parco che avvolge gli edifici è arricchito da un
laghetto e da vari canali alimentati dal Lia. Fino ad alcuni anni fa,
vi si trovava pure un campo da tennis.
Anche se non è semplice ricostruire una storia di
questo luogo si scopre che è stato il teatro di eventi non banali,
tali da legare il piccolo paese di Colfrancui a vicende molto più
grandi. Una prima ricostruzione, anche se parziale, si può ottenere
ricorrendo alla memoria degli anziani.
Durante la I Guerra Mondiale, nel 1917 Colfrancui fu
occupata dagli Austroungarici che elessero villa Galvagna a loro
comando. Tra l’altro, sulla cima degli alberi più alti del parco
erano stati ricavati degli osservatori per dirigere il tiro delle
artiglierie alloggiate nei fossati di Colfrancui, sulle trincee
italiane al di là del Piave. Per lungo tempo rimasero visibili sul
tronco di 2 enormi platani i chiodi che vi erano stati infissi allo
scopo di formare una specie di scala. Più volte gli Italiani
bombardarono Colfrancui nel tentativo di eliminare questi
osservatori. Ma allora le bombe non erano intelligenti e i colpi
caddero altrove. Oggi invece…….
Nella II Guerra Mondiale la villa e il parco ospitarono
una caserma dei bersaglieri ( o forse della guardia forestale ) e in
seguito, forse dal 1943, un importante ospedale militare tedesco.
Non meno di 150 tende militari erano distribuite sotto i grandi alberi
mentre nei locali della villa vi erano sale operatorie ad alta
specializzazione. I chirurghi tedeschi salvarono la pelle anche a
qualche indigeno; li operavano, dice la leggenda, sul tavolo del
fabbro del paese. Va ricordato che a quei tempi non esistevano
farmaci come la penicillina ( almeno in Italia ) e un’appendicite era
spesso mortale. I malati manifestavano la loro gratitudine con
pollami, se ne avevano, sennò con rosari. Nel maggio del 1945, a
guerra finita, arrivarono gli Alleati. L’ospedale fu occupato, poi
nel caos postbellico, fu saccheggiato ad opera di sciacalli certamente
non venuti da fuori: pratica ripugnante.
Vale la pena di riferire di un altro uso della villa,
anzi del parco. Negli ultimi mesi di guerra il cielo era spesso
solcato da centinaia di aerei angloamericani diretti in Grermania e la
gente ne era terrorizzata. A volte c’erano dei combattimenti aerei e
sulla zona piovevano i bossoli delle mitragliere. Vecchi, donne e
bambini si rifugiavano, oltre che nei fossi dei campi circostanti,
fra i grandi alberi e dentro i profondi fossati del parco.
Pochi mesi dopo la fine della guerra villa fu usata
come alloggio per un gruppo di profughi istriani .
Servì da rifugio anche nel 1951, per alloggiarvi gli
sfollati che fuggivano dall’ alluvione del Polesine ( e la voce
popolare racconta di assalti notturni dei giovanotti locali alle
ragazze rovigotte. Eh, il fascino dell’esotico).
Nel frattempo, tra le 2 guerre mondiali, Villa
Galvagna era diventata Villa Giol, dal cognome del nuovo proprietario
e così viene identificata dalla gente ancor oggi.
Negli anni intorno al 1920 Giovanni Giol, giovane
friulano, era emigrato in America del Sud, dove fece fortuna con la
viticoltura. Tornato in Italia, investì le sue ricchezze acquistando
le terre un tempo dei Galvagna e la villa stessa dal proprietario di
allora, di cui si ricorda il cognome, Lorenzon.
Quindi, quando oggi i Benetton (e altri che iniziano
con la B) acquisiscono grandi proprietà terriere, non fanno nulla di
nuovo.
Una nota va riservata anche al laghetto della villa (
in realtà al più grande dei due esistenti ) dove, si raccontava, i
Tedeschi avevano gettato armi e strumenti; ma sono solo voci. Di
sicuro gli specchi d’acqua ospitavano molti pesci, anche di grossa
taglia, fino agli anni ‘60. Logiche le incursioni notturne per
andare a pesca di nascosto dai severi guardiani, strisciando nel buio
come si era imparato al cinema dai pellerossa. L’emozione della
cattura di un luccio, di una carpa o di un’anguilla di grosse
dimensioni, il timore dei guardiani, l’eccitazione soffocata, il
cuore a mille , non saranno mai neanche lontanamente paragonabili a
nessun accidenti di pleistescion. I ragazzi teledipendenti di oggi
non sanno cosa si sono persi. Tra l’altro, a quei tempi, una pesca
fortunata significava un buon pasto per l’intera famiglia e quindi
queste violazioni alla proprietà privata erano silenziosamente
tollerate .
Gli ultimi decenni sono stati caratterizzati da un
lento declino. Solo di recente ci sono stati interventi di restauro
anche importanti, tali da portare a un riutilizzo almeno parziale del
complesso edilizio.
Se si prova ad andare più indietro nel tempo, navigando
( con qualche difficoltà) tra le rare fonti, si aprono scenari
affascinanti.
Circa le origini della villa vale la pena di riportare
la sorprendente ma affascinante ipotesi che il primo nucleo risalga
al Medio Evo e debba la sua origine ai Templari! Del resto i Templari
avevano una loro chiesa, un ponte, un mulino ed altri edifici civili
tra i quali un’officina di fabbro , lungo il Lia nel vicino paese
di Tempio, in comune di Ormelle. Un luogo in cui la cura dell’anima
e il ristoro dei pellegrini si saldavano alla riscossione di tasse e
corvèes. Non sarebbe poi così strano se avessero pensato di
realizzare una struttura simile a pochi chilometri di distanza,
lungo lo stesso fiume.
A volte ci si dimentica che nel periodo storico che
noi oggi definiamo come Medio Evo la vita era organizzata in maniera
molto diversa da oggi. Comportamenti oggi normali e diritti
indiscutibili come la possibilità di lavorare e di cambiare mestiere,
di maritarsi, di spostarsi, la pari dignità davanti alla legge erano
assai aleatori e spesso dipendevano dal capriccio del potente di
turno. Questo valeva anche per l’utilizzo dell’acqua e della forza
motrice da essa generata , quindi anche per i mulini e i magli dei
fabbri. I contadini, volenti o nolenti, dovevano portare i cereali a
macinare al mulino e non potevano sfuggire ai gabellieri che qui li
aspettavano.
In un ‘epoca in cui si tassavano anche l’uso di ponti e
strade, un mulino e un ponte erano luoghi strategici non solo dal
punto di vista militare ma anche economico
Lo stesso discorso vale per le officine dei fabbri :
qui si potevano forgiare zappe ma anche spade. Il fabbro, detentore
della tecnologia per la lavorazione dei metalli, era un bene
prezioso e quindi anche la sua officina era opportunamente posta
sotto la protezione (e il controllo) delle guardie feudali. Anche
allora era questione di tecnologia e di risorse Chi poteva
permettersi le armi e le corazze migliori diventava
pressoché inattaccabile. Nulla potevano contro un
cavaliere armato di spadone o di mazza ferrata i soldati semplici,
rivoltosi o briganti le cui armi spesso erano coltelli, bastoni con
punta di ferro, archi e frecce.
Chi scrive queste note non ha documenti attestanti che
nel Medio Evo, sorgessero anche a Colfrancui, come a Tempio, una
chiesa, un mulino, un’ officina e altro. Nota solo che ancora nel xx
secolo, a pochi metri dalla villa, dalla chiesa e dal ponte sul Lia
c’era un fabbro con la sua officina che usava l’acqua del Lia per il
suo lavoro. Solo una coincidenza?
Ma facciamo un salto nel tempo, fino al XIX secolo e
alla famiglia Galvagna.
La villa fu realizzata per volere del barone Emilio.
Fu lui a decidere di trasformare quest’area marginale, lontana da
Venezia ma periferica rispetto anche a Oderzo, in una magnifica
residenza nobiliare e a voler farne un luogo adatto ad accogliere
ospiti provenienti da tutta Europa. Il grande parco avrebbe fatto da
degna cornice .
Probabilmente vi soggiornò, e non per caso, il grande
storico e archeologo tedesco Mommsen. Nel 1875 , vi giunse,
provenendo da Pietroburgo con la moglie Sophie Davydoff, per morirvi
poco dopo, Richard Guidoboni Visconti, un parente dei Galvagna dalla
vita avventurosa. Su di lui e sui suoi rapporti con i Galvagna ha
scritto Eugenio Bucciol.
Certamente vi abitò la principessa russa Tatiana
Galitzine che aveva sposato il barone Francesco a Vienna nel 1884.
Lui aveva 44 anni, lei 29. ( La principessa trascorse i suoi
ultimi anni a Venezia, dove morì nel 1933)
Nel 1893 venne a villa Galvagna la regina Natalia di
Serbia e vi rimase qualche tempo. Di questo soggiorno sopravvive
qualche ricordo ancor oggi: “Mia nonna
mi raccontava…”
Il barone Emilio doveva essere uno in gamba. Nel 1848
partecipò alla difesa della Repubblica di Venezia contro gli
Austriaci; alcuni anni dopo fece espatriare verso il Piemonte (verso
l’Italia ) il primogenito Francesco e poi anche l’altro figlio,
Giuseppe. Completata la villa a Colfrancui si dedicò
all’archeologia, acquistando e raccogliendo reperti antichi di cui
le campagne di allora erano ricche. Leggiamo cosa scriveva il
Mantovani nel 1873 nell’opera <Il Museo di Oderzo>
“….E qui vuole giustizia che si tributi un attestato di
solenne benemerenza alla memoria del barone Emilio Galvagna, Sindaco
di Oderzo ed al degno suo figlio il Barone Francesco al cui
intelligente patriottismo si deve se molta messe archeologica delle
loro città non andò in rovina. Questi due furono i soli, dopo il
Melchiori nel 1500 ……….. che abbiano pensato che le lapidi essendo,
anche documento di vita degli avi nostri, la loro distruzione è una
specie di parricidio… Quindi si occuparono attivamente di raccogliere
presso la loro splendida villa di Colfrancui (Frazione del Comune di
Oderzo) come in sicuro asilo quanti più avanzi antichi poterono
acquistare.”
Un’impresa lungimirante e modernissima, che richiese
energie e denari, attuata in un tempo in cui le antichità venivano
apprezzate solo se realizzate in materiali rari o preziosi. I
reperti archeologici della collezione Galvagna oggi si trovano (
almeno in parte) nel museo archeologico di Oderzo e ne occupano interi
scaffali.
A Colfrancui questa vocazione alla tutela era nota
perché i muri del palazzo erano quasi rivestiti di lapidi, are e
reperti vari che i ragazzini osservavano rapiti quando
accompagnavano qualche adulto che andava a lavorare in villa.
Francesco, dal canto suo, aveva intrapreso la carriera
diplomatica. Dopo esser stato a Berlino, partecipò nel 1869 alla prima
missione diplomatica italiana in Giappone, dove dedicò attenzione
alla bachicoltura. Nei decenni seguenti i bachi da seta diverranno
una delle attività agricole primarie nel Veneto e in tutto il nord
Italia. Il barone rimase colpito, e lo scrisse, dalle misere
condizioni di vita della popolazione dell’interno del Giappone.
Raccolse inoltre una collezione di porcellane orientali e di oggetti
d’arte che portò a Colfrancui per costituirvi un Museo d’arte
giapponese.
In seguito Francesco fu ambasciatore a Costantinopoli,
a Belgrado, a Copenaghen e, infine, a L’Aia, sempre andando e venendo
da Colfrancui.
Ci piace pensare Villa Galvagna negli anni di fine
’800 gonfia di vita, i cortili affollati di carri, cavalli e
carrozze, le persone di servizio affannate dietro a ospiti che
parlavano russo, francese o tedesco, quando già capire la lingua
italiana era un problema, il barone Francesco appena arrivato o in
partenza, un andirivieni di persone, valige, bauli, missive..
Oggi ci immaginiamo quel tempo placido, addirittura
arcadico. Un errore.
|