Parlando di eventi sportivi il Giro d’Italia quest’anno non ci sarà. Troppo pericoloso per gli spettatori, per gli atleti, per tutti. Sto ovviamente pensando al contagio della polmonite virale che sta colpendo il pianeta e delle sue ricadute, pesantissime. D’altronde tutte le grandi manifestazioni sportive e gli altri avvenimenti di massa sono posticipati o annullati. Ne scrivo perché la Colfranculana è una società di podisti che opera in una zona ad alta sensibilità verso il ciclismo. Tutti abbiamo o abbiamo avuto un parente che ha “fatto” ciclismo. Il Giro è passato più volte per Oderzo (qualche anno fa persino per Colfrancui). Quest’anno gli appassionati dovranno forzatamente lavorare di memoria e riandare ai Giri degli anni passati. Mi viene in mente l’amico Ilario che conosce un’infinità di leggende e di storie vere più incredibili di quelle inventate.
Per conto mio vorrei raccontare di quando ho conosciuto Felice Gimondi. Era un campione esemplare e un bergamasco, una terra oggi martirizzata. Gimondi è morto alcuni mesi fa; aveva 76 o 77 anni. I suoi inizi da professionista furono costellati di vittorie. Poi esplose Eddy Mercks, il cannibale. Quanti ordini d’arrivo riportavano: “1° Merckx 2° Gimondi”. Ciononostante vinse il Giro, il Tour, il Mondiale e molto altro.
Erano anni in cui le gare più importanti attiravano davanti al televisore folle di appassionati. Stiamo parlando di 50 anni fa: gli sport più popolari, oltre al calcio, erano il ciclismo, la boxe, le gare motoristiche. In quegli anni il territorio opitergino aveva 4 o 5 giocatori in serie A. Erano per pochi gli sport invernali e quelli acquatici, il tennis, la pallavolo, l’atletica… Il podismo era di là da venire.
Una volta, penso il 1970 o 1971, il Giro fece tappa a Treviso. L’arrivo era nelle vicinanze dell’Istituto Magistrale “Duca degli Abruzzi”, a ridosso delle mura. Al Duca io avevo studiato e lo conoscevo benissimo, così come i suoi dintorni. Così pensai di andare a vedere da vicino personaggi assai popolari come Dancelli, Basso e, appunto, Gimondi. Impresa non facile. Riuscii ad arrivare nelle vicinanze dell’arrivo ma la folla eccitata e la grande confusione mi impedirono di arrivare in zona traguardo. Avevo capito che il “Duca” veniva usato come luogo d’appoggio per l’organizzazione e per i ciclisti.
Così feci un giro e risalii per via Caccianiga giungendo “da dietro” fino al cancello della scuola. Era chiuso ma si poteva entrare lo stesso. Nel cortile un bel gruppo di auto con cose appiccicate sui parabrezza. Entrai dal portone (aperto) così come avevo fatto per centinaia di volte per andare in classe, imboccai il corridoio del piano rialzato, dirigendomi verso il retro dell‘edificio da cui proveniva del rumore. Oggi una cosa del genere sarebbe inconcepibile e stupida. Lo era anche allora, a ripensarci. Incrociai una persona che camminava di fretta ma non mi degnò di uno sguardo. Proseguii fino a dove il corridoio faceva angolo. Continuava a non apparire nessuno anche se si sentivano delle voci.
Dalla porta della zona bagni uscì un uomo; era Gimondi, vestito a metà, con in mano un fagotto. Quando si dice il caso. Secondo me aveva fatto l’esame antidoping. Mi aspettavo una specie di gigante muscoloso, era invece magro e normale. Si guardò intorno e mi chiese gentilmente da dove si usciva; intanto gli cadde un indumento. Fulmineo lo raccolsi e glielo porsi. Poi gli indicai la stanza d’angolo, una piccola aula professori, cui seguiva un’entratina da cui si usciva nel cortiletto esterno e quindi in strada. Non che fossi sicuro che si usciva di là, ma quasi. Lui intanto si mise ad indossare la maglia a maniche lunghe e mi disse qualcosa con un accenno di sorriso.
In quel momento mi arrivò alle spalle Bepi il bidello. Lui sì sapeva chi ero: <<Cosa fai qui?>> e io candido: <<Sono venuto a vedere il Giro e..>>. Bepi era il “nostro” bidello, autorevole e tollerante verso le nostre divergenze di studenti sessantottini e ormonali, il vero zar degli spazi dell’istituto. A volte giungeva ad allungarci mezza sigaretta. Altri tempi. Bepi mi sibilò, imperioso e agitato, che dovevo andarmene, cosa che sapevo benissimo.
Gimondi allora si rivolse a Bepi dicendo con calma che potevo uscire “di qua” cioè con lui. Così lo seguii nella stanza, lui che camminava in modo un po’ strano e che scambiava qualche parola con me che facevo l’indifferente. Nella stanza c’era un po’ di gente indaffarata su grandi fogli, probabilmente dei giudici. Gimondi uscì all’aperto e ci fu un alto vocio. Io gli diedi qualche attimo prima di uscire e trovarmi davanti a una folla in cui si mescolavano addetti ai lavori, operatori fotografici, “tifosi” e… carabinieri. Ahi! Eccomi nei guai.
Fortunatamente, appena si accorsero che ero un ragazzino e non un corridore si dedicarono ad altro e io mi infilai nella folla. Non riuscii più a scorgere la maglia di Gimondi, sparito fra gli addetti. Quella giornata finì così ma la sua voce mi è rimasta negli orecchi.
Ancor oggi riconosco al volo la sua parlata limpida.
Elves