Podistica di Vallenoncello, alle porte di Pordenone. Ci arriviamo in una fredda
mattina di fine inverno. E’ una manifestazione FIASP, come si capisce subito dallo
staff alle iscrizioni, dalle partenze libere ecc. . L’organizzazione della marcia si
appoggia alle strutture parrocchiali, situate nella zona “vecchia” del paese. Paese
che, tra l’altro, negli ultimi anni è cresciuto molto sia dal punto di vista abitativo che
dal quello produttivo. Accanto alle abitazioni popolari di 50 anni fa sorgono case e
palazzi recenti, con colori e materiali che ne indicano subito la giovane età.
La marcia inizia tra le case, poi c’è un tratto sull’argine del Noncello, fiume- torrente
che ha tutta una storia di esondazioni insieme al Meduna di cui è affluente. E’ lungo
una quindicina di Km ed è un fiume di risorgiva: nasce dalle parti di Cordenons. Pur
avendo, in teoria, portata regolare, fa parte del complicato sistema dei corsi
d’acqua del pordenonese ed è stato più volte “complice” di piene e allagamenti.
Camminando si notano i recenti lavori di idraulica realizzati proprio per mettere
sotto controllo questo corso d’acqua che stamattina pare proprio tranquillo. Fin qui
la marcia è normale, quasi anonima. Poi ci si addentra nella campagna e il percorso
prende respiro. Da sottolineare i ristori che qui sono abbondanti, variati e
addirittura fantasiosi come pure il ristoro finale. Anche la zona dell’arrivo è ospite
delle strutture parrocchiali .
E qui, mentre sto sbocconcellando qualcosa mi accade un non so che. Vicino alla
zone di arrivo c’ è un campo ( un campetto) di calcio, da un lato affiancato dal
Noncello, dall’altro un po’ rosicchiato da alcuni campi da tennis. Ma è ancora lì,
come dev’essere in tutte le parrocchie che si rispettino. Una parrocchia senza campo
di calcio è come una festa senza torta, un cane senza coda, un.. Insomma spero di
essermi spiegato. Tornando al campo da calcio, c’è qualcosa che mi attira. Poi
all’improvviso, il flash! Io qui ci sono stato 40 anni fa. Con la squadra di calcio di
Colfrancui. Scattano i ricordi, abbelliti dal tempo . All’epoca era tutto diverso: le
dimensioni del campo, l’abitato circostante, la strada per arrivarci… Noi di
Colfrancui venimmo a giocare sotto un autentico diluvio. Ci fu raccomandato di non
scagliare fuori il pallone dal lato est perché finiva nel fiume e addio. Ciue, il portiere
titolare ( e leader del gruppo) volle giocare centravanti. In porta c’era Tali che,
dopo l’ennesimo tuffo nell’orribile fango dell’area di porta mi urlò di portargli dei
pantaloncini perché quelli che indossava erano distrutti. Forse era colpa del fango:
il sospetto era che fosse composto di rifiuti tossici. La stopper Ciso invece
nell’acquivento era a suo agio . Giocò una gran partita. Perdemmo per 2 a 1, mi
pare. I nostri giocatori mi pare di rivederli: allegri, casinisti, inaffidabili. In quegli
anni giocare a pallone era una cosa naturale, un piacere, ma anche un onore.
L’allenamento era una variabile anarcoide e la partita una cosa impegnativa ma
non carogna o selvaggia. Viene da vantarsi specialmente se si fa il confronto con
l’oggi. Torno a casa riproponendomi di organizzare una rimpatriata con quel
gruppo. Con chi è rimasto, perché qualcuno non c’è più.
Elves
e…….. per continuare in tema di calcio
RICORDI DI UN TERZINO SINISTRO
“Quando io ho cominciato a giocare a pallone erano gli anni sessanta e Mourinho,
Raiola e Sky non c’erano ancora.
Ero l’unico che non avesse le scarpette per cui giocavo con gli scarponcini legati
alla caviglia. Per questo, e secondo una logica stringente, i grandi decisero che
dovevo giocare in difesa.
A quei tempi ero convinto che la vita fosse un compito da assolvere e non una festa
da inventare e quindi mi attenni per anni a quell’indicazione di massima, crescendo
con la testa di un difensore e facendo le varie esperienze calcistiche con sulla schiena
il numero 3. Era, allora , un numero completamente privo di poesia , ma alludeva a
una disciplina rocciosa e imperturbabile.
Il quel calcio il difensore difendeva . Era un tipo di gioco in cui, se avevi sulla
schiena il numero 3, potevi giocare decine di partite senza mai passare la linea di
centrocampo. Non era richiesto. Se la palla era di là, tu aspettavi di qua, e rifiatavi.
La cosa dava una strana percezione della partita. Io, per anni, ho visto la mia
squadra fare gol lontani e vagamente misteriosi.
Erano cose che accadevano laggiù, in una parte del campo che non conoscevo e
che , ai miei occhi di terzino, replicava l’aria leggendaria di una località balneare.
Quando si faceva goal, laggiù si abbracciavano , questo me lo ricordo bene.. Per
anni li ho visti abbracciarsi, da lontano. Ogni tanto mi è anche successo di farmi
tutto il campo per raggiungerli e abbracciarmi anch’io, ma non funzionava tanto :
arrivavo sempre un po’ dopo, quando la parte proprio svergognata era già finita, era
come ubriacarsi quando gli altri stanno tornando a casa.. Così, la maggior parte delle
volte, rimanevo al mio posto . Ci si scambiava un’occhiata sobria tra difensori .
Il portiere, quello era sempre un po’ matto , se la cavava da solo. A quei tempi si
marcava a uomo. Questo significa che per tutta la partita giocavi appiccicato a un
giocatore avversario. L’unica cosa che ti era richiesta era : annullarlo.
Questo imperativo portava a intimità quasi imbarazzanti. Era un calcio semplice, per
cui, io, che avevo il numero 3, marcavo il numero 7. E i numeri 7 erano, in fondo ,
tutti uguali. Magretti, gambe storte, veloci, un po’ anarchici , casinisti pazzeschi.
Parlavano molto, litigavano con tutti, si assentavano per decine di minuti, come
presi da improvvise depressioni, e poi ti fregavano come serpenti, guizzando con
un vitalità improvvisa che aveva l’aria del sussulto di un morente. Dopo un quarto
d’ora sapevi già tutto di loro. Come fintavano, quanto odiavano il centravanti, se
avevano problemi al ginocchio, che mestiere facevano e che deodorante usavano (
certi micidiali Rexona..). Il resto era una partita a scacchi in cui lui teneva i bianchi.
Lui inventava, tu distruggevi.
Per quanto mi riguarda, il massimo del risultato era vederlo uscire espulso per
proteste , ormai in piena crisi di nervi , coi suoi compagni che lo mandavano in
mona. Mi piaceva molto quando, uscendo, annunciava, gridando, che lui in quella
squadra non avrebbe giocato mai più. Lì avevo il senso di un lavoro ben fatto.
Non c’erano ripartenze, non c’erano raddoppi, non si faceva il fuorigioco, non si
andava sul fondo a crossare. Quando prendevi la palla cercavi il primo
centrocampista disponibile e gliela davi, come il cuoco passa il piatto al cameriere.
Che facesse lui. Buttarla in fallo laterale andava benissimo e , quando proprio eri in
difficoltà, la passavi al portiere . Era tutto lì.
Poi le cose cambiarono. Iniziarono ad arrivare dei numeri 7 che non parlavano, non
entravano in depressione, ma in compenso se ne stavano indietro , ad aspettare.
Non mi era chiaro cosa. Forse me, mi dissi. E fu lì che passai la metà campo.
Le prime volte era un cosa strana. Dalla panchina tutti iniziavano a urlarti: ”Torna!
Copri!” , però intanto tu eri già là a respirare quell’aria frizzante , e quindi tornavi,
ma coma la domenica sera dal mare, di malavoglia, e ogni volta ci rimanevi un po’
di più.
Arrivai a vedere in faccia il portiere avversario e mi capitò perfino di ricevere palla
dal nostro numero 10, un fuoriclasse fighetto che avevo sempre visto giocare da
lontano : guardò proprio me e me la passò . Erano esperienze “
Post Scriptum
Non crederete sul serio che sia roba mia.
E‘ uno scritto di Alessandro Baricco uno scrittore cui capita spesso di toccare tasti cui molti sono
sensibili Tanto per dire, io davvero non avevo le scarpe da calcio e giocavo da terzino sinistro. Le
mie prime me le regalò… ma questa è un’altra storia.